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Qual è la vera unità della Chiesa?
Un modello evangelico oltre gli estremismi
In quanto esseri umani creati da un Dio trino, siamo creature sociali. Siamo destinati a relazionarci con gli altri in uno spirito di unità e di benevolenza reciproca. Il nostro benessere fiorisce quando siamo in compagnia di altri e collaboriamo per il bene comune. La coesistenza pacifica è parte essenziale della nostra umanità, da cui la nota espressione: “Nessun uomo è un’isola”. Desideriamo vivere in un ambiente pacifico. Il tema della pace e dell’unità è quindi vitale per la nostra esistenza.

Con l’ingresso del peccato nel mondo, però, una delle realtà più danneggiate è stata proprio la capacità dell’umanità di vivere insieme nell’armonia desiderata. Il peccato ci ha resi egoisti, vanificando i nostri sforzi di convivenza pacifica. Come vedremo, la venuta di Cristo ci riconcilia non solo con Dio, ma anche gli uni con gli altri. La Chiesa, quindi, dovrebbe essere il luogo in cui questo anelito profondo dell’uomo trova il suo compimento. Sebbene l’unità sia in buona parte una realtà tra i veri credenti, c’è ancora molto da fare per realizzarla nella pratica quotidiana.

R. B. Kuiper, nel suo classico Il corpo glorioso di Cristo, scrive:

La situazione della Chiesa sembra triste quasi quanto quella del mondo. A quanto pare, anch’essa è una casa divisa contro sé stessa. Assomiglia a un bel vaso che, caduto dal suo trespolo, giace in mille pezzi. È come una grande struttura trasformata da un’esplosione in un aggrovigliato ammasso di rottami. Per quanto possa sembrare incredibile, il Corpo di Gesù Cristo è davvero uno solo: la Sua Chiesa. 

È questa unità che dobbiamo perseguire.

Quando Paolo scrisse la sua lettera ai Filippesi, era pieno di gioia per il valore che questa chiesa aveva per lui. Era la comunità che sosteneva il suo ministerio missionario mentre si dirigeva verso l’Europa. Anche quando era imprigionato, questa chiesa gli inviò aiuti concreti. Al momento della stesura della lettera, gli avevano persino inviato uno dei loro membri più stimati, Epafròdito, per assisterlo in prigione (2:25). Tuttavia, Paolo sapeva che la disunità avrebbe ostacolato la loro efficacia. Perciò, esortava a non dare per scontata l’unità. Due donne, che egli stimava per il loro impegno nel Vangelo, sembravano essere in conflitto e la notizia era arrivata fino a lui. Perciò scrisse loro:

“Esorto Evodia ed esorto Sintìche ad avere un medesimo sentimento nel Signore. Sì, io prego te pure, mio vero collega, vieni in aiuto a queste donne, le quali hanno lottato con me per l’evangelo, insieme a Clemente e agli altri miei collaboratori, i cui nomi sono nel libro della vita” (4:2, 3).

Il punto centrale del libro che state leggendo è Filippesi 1:27. Si tratta di un appello alla chiesa di Filippi affinché rimanga unita sia nella comunione sia nel ministerio. Paolo basa tale appello sul Vangelo e li esorta a vivere in modo degno di esso:

“Soltanto, conducetevi in modo degno del vangelo di Cristo, affinché, o che io venga a vedervi o che sia assente, senta dire di voi che state fermi in uno stesso spirito, combattendo insieme con un medesimo animo per la fede del vangelo”.

Se i Filippesi avessero continuato a fare riferimento al Vangelo, sarebbero rimasti saldi in un medesimo spirito e avrebbero combattuto fianco a fianco per il Vangelo stesso. Questo sarebbe stato possibile sia in presenza sia in assenza dell’apostolo.

Questa unità centrata sul Vangelo – l’unità evangelica – deve essere riaffermata anche oggi.

Basta frequentare una chiesa per notare due estremi pericolosi nel modo in cui si concepisce l’unità cristiana: l’unità come mera organizzazione e l’unità come pieno accordo su ogni dettaglio.

Unità come mera organizzazione?

Ci sono persone la cui principale preoccupazione è soltanto di tipo organizzativo. Desiderano che tutti i cristiani, sia come individui sia come chiese, si riuniscano in una sorta di struttura globale cristiana.  Spesso viene citata la preghiera sacerdotale di Gesù, nella quale Egli disse: 

“Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola: che siano tutti uno; che, come tu, o Padre, sei in me e io sono in te, anch’essi siano in noi, affinché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Giovanni 17:20, 21). 

Si sostiene, quindi, che questa unità visibile avrebbe un forte impatto evangelistico, come indicato dalle parole del Signore. E chi non vorrebbe una testimonianza simile?

Tuttavia, ciò che spesso viene trascurato è che tale unità è riservata a “quelli che credono in me per mezzo della loro parola”. Essa riguarda, cioè, esclusivamente coloro che hanno creduto nel Vangelo così come annunciato dagli apostoli. Se è vero che non possiamo leggere i cuori, è altrettanto vero che la fede salvifica deve poggiare sul Vangelo così come rivelato nelle Scritture. Questo Vangelo si fonda sull’opera compiuta da Cristo per la grazia di Dio, senza l’aggiunta di opere umane.

Non possiamo, per esempio, essere in comunione con chi ritiene che Maria sia corredentrice insieme a Cristo o che sia necessario rivolgersi a lei per ottenere misericordia da suo Figlio. Questo è un altro vangelo, che non salva. L’unità che Gesù invoca è radicata nella verità trasmessa dagli apostoli e che oggi possediamo nelle Sacre Scritture.

Un altro aspetto spesso ignorato da chi cita Giovanni 17 è che la vera fede, pur essendo nascosta nel cuore, produce frutti visibili: i frutti del ravvedimento e della conversione. Quest’ultima, infatti, porta a una trasformazione spirituale evidente (cfr. II Corinzi 5:17) e a un’ubbidienza perseverante alla Parola di Dio (cfr. Giovanni 8:31). Se questa trasformazione non è presente, allora chi si dice cristiano può essere sinceramente ingannevole. Paolo lo affermò chiaramente a Tito: “… la grazia di Dio, salvifica per tutti gli uomini, è apparsa e ci insegna a rinunciare all’empietà e alle mondane concupiscenze, per vivere in questo mondo temperatamente, giustamente e piamente” (Tito 2:11, 12).

La vera grazia produce il frutto della santità (cfr. Giovanni 17:17, 19). Non possiamo quindi accogliere nella comunione cristiana coloro che da tempo hanno abbandonato la santità che procede dalla verità. Anzi, se prendiamo sul serio le parole di Paolo, quanti persistono ostinatamente nel peccato devono essere allontanati dalla comunità cristiana:

“Vi ho scritto nella mia lettera di non mischiarvi con i fornicatori, non del tutto però con i fornicatori di questo mondo o con gli avari e i ladri, o con gli idolatri, perché altrimenti dovreste uscire dal mondo, ma quel che vi ho scritto è di non mischiarvi con alcuno che, chiamandosi fratello, sia un fornicatore, un avaro, un idolatra, un oltraggiatore, un ubriacone o un ladro; con costoro non dovete neppure mangiare. Poiché, devo io forse giudicare quelli di fuori? Non giudicate voi quelli di dentro? Quelli di fuori li giudica Dio. Togliete il malvagio di mezzo a voi stessi” (I Corinzi 5:9-13).

Infine, i sostenitori di una mera unità organizzativa trascurano un elemento fondamentale della preghiera di Gesù in Giovanni 17: “… come tu, o Padre, sei in me e io sono in te, anch’essi siano in noi …” (v. 21). L’unità a cui Cristo allude è spirituale, non organizzativa. Essa è modellata sul rapporto intimo e reale tra le Persone della Trinità. Questa unità è stata acquistata da Cristo e applicata dallo Spirito Santo a quanti credono nel Vangelo. Si tratta, quindi, di un legame organico, non strutturale, e il nostro compito è mantenerlo, non crearlo artificialmente.

Perciò, non possiamo accettare l’idea di una “unità cristiana” indistinta e unirci con chiunque si dichiari nominalmente cristiano. Dobbiamo verificare se la fede professata è quella del Vangelo biblico e se produce frutti. Commentando Giovanni 17:21, Calvino affermava:

Ogni volta che Cristo parla di unità, ricordiamoci di quanto il mondo sia pronto a disperdersi in modo sconvolgente quando si separa da Lui; impariamo che l’inizio di una vita benedetta è che tutti siamo governati e viviamo per mezzo del solo Spirito di Cristo. 

Unità come accordo totale?

All’estremo opposto, troviamo coloro che scelgono di collaborare soltanto con chi è d’accordo con loro su tutto: su ogni punto dottrinale e su ogni aspetto pratico. Spesso queste divisioni sorgono a causa di divergenze riguardanti lo stile del culto, la politica, l’educazione dei figli, l’organizzazione e l’amministrazione della comunità locale, l’uso dei social media, alcuni aspetti dell’escatologia e altre questioni secondarie.

Tuttavia, è evidente che queste non sono questioni particolarmente rilevanti dal punto di vista dottrinale.

È vero che il grado di cooperazione tra chiese o credenti può variare in base al grado di accordo dottrinale e pratico. Tuttavia, dovrebbe comunque sussistere un certo livello di comunione quando c’è la prova di un’autentica fede comune nel Vangelo. Rifiutare qualsiasi tipo di collaborazione con fratelli e sorelle in Cristo, soltanto perché non si condivide la stessa visione su ogni questione, è un errore.

Se tale logica avesse prevalso nei primi tempi del cristianesimo, la Chiesa del Nuovo Testamento si sarebbe irrimediabilmente spaccata lungo la linea di demarcazione tra Giudei e Gentili.

L’apostolo Paolo affrontò questo tema in più di una sua epistola, in particolare in Romani e in I Corinzi. Ai Romani scrisse:

“Quanto a colui che è debole nella fede, accoglietelo, ma non per discutere opinioni. Uno crede di poter mangiare di tutto, mentre l’altro, che è debole, mangia soltanto verdure. Uno stima un giorno più di un altro, l’altro stima tutti i giorni uguali; sia ciascuno pienamente convinto nella propria mente … perché giudichi tuo fratello? E anche tu, perché disprezzi tuo fratello? Poiché tutti compariremo davanti al tribunale di Dio. Così, dunque, ciascuno di noi renderà conto di sé stesso a Dio” (14:1, 2, 5, 10, 12).

Il suo appello era chiaro: la Chiesa di Roma doveva rimanere unita, anche in presenza di differenze su questioni secondarie. Non tutte le divergenze meritano una separazione. Ci sono ambiti nei quali è lecito “concordare di non essere d’accordo”.

Mi viene in mente un episodio raccontato da un giovane pastore. Era stato chiamato in piena notte per aiutare una coppia di credenti in crisi matrimoniale. Quando scoprì il motivo del litigio, rimase incredulo: si trattava di una questione banale, assolutamente sproporzionata rispetto al disastro emotivo in corso. Alcuni pastori più anziani, con saggezza, gli ricordarono che molto spesso le famiglie si dividono per inezie. Il problema non è la gravità della questione, ma l’incapacità di distinguere tra l’essenziale e il superfluo. E quel che accade nelle famiglie può accadere anche nelle chiese. Molte divisioni nelle chiese locali nascono proprio da questioni irrilevanti.

Come cercherò di mostrare in questo libro, dobbiamo guardarci dal fomentare divisioni che non abbiano dei seri motivi di carattere dottrinale o morale. Questo è proprio il cuore del messaggio di Filippesi 1:27, stare fermi in uno stesso spirito, combattendo insieme con un medesimo animo per la fede del vangelo. Sebbene l’appello iniziale fosse rivolto all’unità nella chiesa locale, gli stessi principi si applicano anche alla collaborazione tra credenti di comunità diverse se si dovesse verificare una tale eventualità. Le stesse verità che preservano la comunione all’interno della propria comunità possono curare le divisioni nel più ampio corpo di Cristo. 

Mark Dever lo riassume così:

La Chiesa è una e deve essere tale perché Dio è uno. I cristiani sono sempre stati caratterizzati dalla loro unità (Atti 4:32). L’unità della Chiesa è sia una proprietà intrinseca che un segno visibile rivolto al mondo, che riflette l’unità di Dio stesso. Le divisioni e i litigi sono, dunque, uno scandalo particolarmente grave. 

Quello che mi propongo di fare è portare l’intera orbita del Nuovo Testamento intorno alle parole dell’apostolo Paolo in Filippesi 1:27. Egli desiderava che i credenti di Filippi fossero uniti in modo sano e solido, nonostante i venti di dottrina che soffiavano tra loro — alcuni dei quali sarebbero stati menzionati più avanti nella sua epistola. Paolo voleva che restassero saldi in “un solo spirito e in una sola mente”, se davvero intendevano lottare insieme, fianco a fianco, per la fede del Vangelo. Questa unità doveva manifestarsi nel loro stile di vita.

Si tratta di una chiamata sempre attuale per la Chiesa del ventunesimo secolo. Molti di noi, che serviamo come guide spirituali, sappiamo quanto sia facile scivolare verso uno dei due estremi descritti in precedenza: o verso un ecumenismo accomodante e privo di discernimento, oppure verso una separazione eccessiva che produce isolamento e settarismo.

Entrambi gli approcci, per quanto opposti, falliscono nel riflettere la vera unità evangelica. 

Per evitare questi errori, dobbiamo avere ben chiaro davanti agli occhi il modello biblico dell’unità. R. B. Kuiper ci mette in guardia da entrambe le derive:

Il denominazionalismo estremo, cioè la tendenza a considerare la propria chiesa come l’unica giusta e santa, e quindi a separarsi dalle altre, accelera la divisione e quindi oscura più che mai l’unità della Chiesa, ma non può distruggerla. L’unionismo estremo, cioè la tendenza a considerare tutte le istituzioni che si dichiarano cristiane come autentiche e a promuoverne una qualche forma di unità organizzativa, minaccia la distruzione della Chiesa, ma non potrà mai distruggere né la Chiesa né la sua purezza. 

Ogni credente, e in particolare ogni leader cristiano, si troverà presto o tardi ad affrontare questa tensione: essere trascinato verso un estremo o l’altro. È inevitabile. Ecco perché è essenziale ricevere, fin dall’inizio del proprio cammino di servizio, un efficace “vaccino” contro questi due estremi, maturando convinzioni bibliche profonde sul tema dell’unità.

Ma non basta evitare l’errore: dobbiamo anche abbracciare ciò che è giusto. Questo significa promuovere consapevolmente attività intra- e inter-chiese che manifestino visibilmente l’unità del corpo di Cristo. Quali sono queste attività? In che modo possiamo vivere e testimoniare concretamente la nostra comune unione nel Vangelo? A queste domande cercheremo di rispondere, passo dopo passo.



Combattere insieme per la fede nel Vangelo


In un tempo segnato da divisioni, individualismo e frammentazione, anche nella chiesa, questo libro ci richiama alla verità centrale del Vangelo: l’unità è una chiamata, non un’opzione.

Con chiarezza biblica e sensibilità pastorale, questo breve ma profondo volume mostra che la vera unità evangelica è radicata nella verità, vissuta nell’amore e resa possibile dallo Spirito Santo.


Una risorsa essenziale per ogni credente che desidera:

  • Distinguere tra unità autentica e compromessi pericolosi;

  • Rifiutare il settarismo sterile;

  • Vivere la comunione cristiana come testimonianza della grazia;

  • Contribuire a una chiesa unita, forte e fedele.


➡️ Ideale per: pastori, responsabili di chiesa, membri di comunità locali, credenti impegnati nella vita della chiesa.
➡️ Temi trattati: unità nella verità, comunione nello Spirito, corresponsabilità nella chiesa, testimonianza evangelica.









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Il battesimo nello Spirito Santo: segno, esperienza e missione

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