La Chiesa di cui abbiamo davvero bisogno - ADI-Media

La Chiesa di cui abbiamo davvero bisogno

Il mio amico Jake è un artista di musica dance elettronica (EDM). Personalmente non so quasi nulla dell’EDM ma, di fatto, si tratta di una vasta sottocultura, che suscita tra i suoi fan una devozione paragonabile a quella di una setta. Se ne possono contare milioni in tutto il mondo.

Ho incontrato Jake quando era una matricola al liceo, insicura ma tutto sommato socievole. È sorprendente vederlo ora, una star che riempie delle enormi sale da concerto in tutto il mondo.

Per chi non ha familiarità con il mondo dell’EDM, prova a immaginare…

… una discoteca piena di gente

… musica da ballo assordante e ad alta energia

… luci laser sincronizzate al ritmo musicale che fendono la nebbia prodotta dalla macchina del fumo

… grandi schermi sul palco, con effetti visivi digitali astratti.

Questo è quello che fa Jake. Crea spettacoli di questo genere, una notte dopo l’altra.

Jake è cresciuto andando in chiesa. È lì che l’ho incontrato, ero il pastore del gruppo giovanile che frequentava quando andava al liceo. Dopo la laurea, lasciò la chiesa locale per una serie di motivi. A volte, quando è in città, frequenta ancora le riunioni di culto, assieme alla sua famiglia. Recentemente mi ha raccontato una delle esperienze che ha fatto in una certa chiesa.

L’incontro di culto di quella comunità si è tenuto in una sala da concerto in una zona centrale. Quando Jake entrò nella stanza scarsamente illuminata, socchiuse gli occhi per vedere attraverso la nebbia della macchina del fumo. Quando la band iniziò a suonare, le luci laser tagliarono la foschia, sincronizzate al ritmo della musica suonata come in occasione di un concerto rock. Gli imponenti subwoofer amplificavano ogni nota di basso. Un grande schermo fissato dietro la band mostrava le parole dei canti in un dinamico testo in perenne movimento, su uno sfondo sul quale si alternavano a velocità vertiginosa degli effetti visivi digitali. Esaurita l’introduzione musicale, il pastore è apparso sullo schermo, predicando il messaggio da una località posta a circa trenta km di distanza. Descrivendomi l’esperienza, Jake disse: “Non mi sentivo per niente a mio agio in quel contesto. Non credo che la chiesa dovrebbe essere così”.

L’esperienza di Jake in quella chiesa era, almeno all’apparenza, del tutto simile a quelle che lui suscitava intenzionalmente a livello professionale. Eppure non si sentiva a suo agio in quell’ambientazione. Jake, un ventenne senza alcun pregiudizio, giunse a una conclusione che espresse in modo lapidario: “Non credo che la chiesa dovrebbe essere così”.

Jake è esattamente il tipo di persona che la maggior parte dei conduttori di chiesa negli USA oggi sta cercando disperatamente. È un giovane millennial (al confine con la Generazione Z), scettico di fronte al cristianesimo e con un’opinione della religione organizzata piuttosto sprezzante, eppure apertamente alla ricerca di speranza, di un significato e di uno scopo. Che cosa ci può insegnare quell’esperienza che ha avuto recentemente la chiesa occidentale?

Quando Jake fa un passo per varcare la soglia di un locale di culto, non si aspetta che la musica, le coreografie e tutto il resto, assomigli a ciò che a lui è più familiare. Non sta cercando la modernità. Non è preoccupato che la chiesa sia bella, alla moda o abbastanza tecnologica, secondo i suoi standard. In effetti, trova scoraggiante assistere al video di un oratore che parla da alcune decine di chilometri di distanza. Non è impressionato dal fatto che la presentazione mostri le più recenti e straordinarie tecnologie audiovisive. È alla ricerca di qualcos’altro. Qualcosa di assolutamente diverso.

Jake è alla ricerca di ciò che è celeste e spirituale e non terreno e materiale. A malincuore fa un passo per entrare in chiesa nella speranza che vi sia qualcosa che non può trovare da nessun’altra parte. Pur non essendone del tutto consapevole, Jake è alla ricerca di qualcosa “fuori dal mondo”, e non è l’unico.

La chiesa della nonna

 Ho ascoltato innumerevoli storie di giovani che non sono per nulla impressionati dagli sforzi profusi dall’attuale chiesa evangelica, nel tentativo di eseguire della musica professionale, ma più in generale di assomigliare e ricreare le ambientazioni tipiche della cultura che li circonda, anzi provano quasi una sorta di rigetto. Loro, per primi, non condividono questa ricerca spasmodica della modernità. Ho sentito queste storie di prima mano ma anche in famiglia e dagli amici dei giovani che si sono allontanati dalla chiesa o non si sono mai sentiti attratti e coinvolti da questa chiesa moderna.

Molte comunità si dedicano instancabilmente a creare qualcosa che Jake e altri come lui non stanno cercando e non desiderano per niente. Noi conduttori di chiese vogliamo che le nostre assemblee propongano musica, siano percepite e si sentano moderne. Siamo alla spasmodica ricerca di novità, cerchiamo di ricreare un clima effervescente e rincorriamo incessantemente tutte le cose che possono fare tendenza. Vogliamo che le persone sappiano che la nostra chiesa non ha nulla a che fare con quella dei loro nonni.

E se la chiesa che frequentava la nonna avesse effettivamente degli aspetti positivi? È facile criticare e liquidare rapidamente l’organo a canne, le tuniche del coro e i pulpiti di grandi dimensioni come reliquie di un lontano passato, ma questa pratica si riduce spesso a un esercizio superficiale e snobistico. E se il ritmo costante con cui si radunavano, l’intenzionalità con cui adoravano, la profondità dei loro cantici, la ricchezza della loro dottrina, il calore delle loro conversazioni, la pratica regolare di riunirsi insieme attorno al pane e al calice della Santa Cena, fossero esattamente le cose di cui abbiamo ancora un disperato bisogno, oggi forse ancor più di ieri, nel pieno della nostra era digitale?

La nostra ricerca incontrollata della modernità non sta influenzando soltanto il modo in cui ci riuniamo per adorare. Sta anche cambiando la nostra concezione di comunità. Oggi sempre più chiese si buttano a capofitto negli spazi su Internet, e viene chiesto alle persone non soltanto di comunicare ma di farlo sulle piattaforme digitali più disparate. Anche la Bibbia è influenzata dall’era digitale, stiamo trasformando la grande narrativa delle Sacre Scritture in una serie di bocconcini facilmente digeribili, di dimensioni ridotte, a scopo d’incoraggiamento, con finalità motivazionali e di aiuto personale. Stiamo passando da una sorta di pasto lento e abbondante, seduti attorno alla tavola, a una sequenza scorciata di “tweet” e messaggini, e stiamo perdendo la nostra attitudine alle sfumature, alla generosità e alla consacrazione.

La nostra cecità

Una delle cose più preoccupanti in tutto ciò è la crescente cecità che caratterizza i credenti. Molti conduttori di chiesa ritengono che questo rappresenti un passo in avanti e dunque un reale progresso; abbiamo accettato e ceduto al mito, secondo cui le cose nuove sono sempre migliori di quelle vecchie. Siamo colpevoli di ciò che C.S. Lewis ha definito “snobismo cronologico”.

Devo ammettere che io stesso ho perpetuato questo ethos nel corso degli anni. Nell’ultimo decennio, ho militato nello staff di alcune chiese della Silicon Valley tra cui una comunità di medie dimensioni, una chiesa emergente e una mega chiesa con diverse sedi. In ognuna, ho sentito la forte tentazione di immergermi a fondo nel contesto digitale in cui operavano, la seduzione di perseguire la modernità a tutti i costi. Ci siamo ritrovati a sprecare quantità eccessive di tempo ed energia nel tentativo di creare spazi che assomigliassero, suonassero e fossero percepiti come delle realtà correlate il più possibile alla cultura popolare in generale. A volte abbiamo scelto saggiamente, mentre in altre occasioni abbiamo fatto dei giri tortuosi che ci hanno condotto piuttosto lontano dai veri obiettivi.

Alla fine, però, abbiamo scoperto che qualsiasi tipo di enfasi posta sulla modernità, generava invariabilmente dei “consumatori” cristiani soddisfatti di un determinato prodotto di cui potevano godere ma che raramente li portava a sperimentare qualcosa di più profondo. Ci siamo resi conto progressivamente che le esperienze più trasformative che le persone stavano vivendo nella nostra comunità non avevano nulla a che fare con le luci, il suono e lo spettacolo. La trasformazione avveniva in modi molto più tattili, attraverso le relazioni personali e la profonda semplicità di studiare le Scritture, pregare e sperimentare assieme una profonda comunione con Dio e la fratellanza: questo determinava il vero spessore qualitativo della comunità locale.

Non è neppure una questione di chiesa grande o piccola. Chiese di ogni forma e dimensione finiscono a piè pari nella trappola di suscitare interesse a tutti i costi, digitalizzando e tecnologizzando tutto ciò che possono. Soltanto Dio conosce le intenzioni più vere degli uomini e delle donne che “guidano la carica”. Ma anche quando tali intenzioni sembrano buone e apparentemente lodevoli, la responsabilità nei confronti della chiesa locale, ci impone di analizzare fino in fondo le nostre ambizioni e considerare attentamente i metodi che stiamo usando per giungere dove desideriamo ardentemente arrivare. Sì, come conduttore di chiesa, desidero servire e raggiungere quante più persone possibili con l’Evangelo. Questo è vero anche per la maggior parte dei conduttori di chiesa che conosco. Ma spesso, il desiderio di “servire e raggiungere il maggior numero possibile” nell’era digitale si trasforma in metodi che essenzialmente equivalgono a “qual è il modo più veloce ed efficiente per diventare più numerosi?”. Ciò è in netto contrasto con il tipo di crescita di cui Gesù stesso ha parlato. Come scrive il mio amico pastore Chris Nye:

Non possiamo abbandonare la semina per far spazio al microonde … Gesù ebbe notevole pazienza e costanza, il che avrebbe frustrato la chiesa della Silicon Valley.

Guarda la telecamera

Tutto questo mi è venuto in mente una domenica mattina mentre salivo sul palco per presentare un sermone sul quale avevo lavorato per settimane. Mentre stavo salendo, il coordinatore del servizio video mi ha ricordato: “Jay, non dimenticare di guardare direttamente nella telecamera in fondo alla sala in modo che gli spettatori dei vari punti d’ascolto si sentano collegati a te”.

Guarda la telecamera in modo che gli spettatori dei punti d’ascolto si sentano collegati a te. La telecamera rappresenta l’elemento di connessione. Questo era il dato da tenere bene a mente.

Nel suo libro assai interessante, Insieme ma Soli, la sociologa Sherry Turkle afferma:

Connessioni digitali possono offrire l’illusione della compagnia senza le esigenze dell’amicizia. La nostra vita in rete ci permette di nasconderci l’un l’altro, anche se siamo collegati l’uno all’altro.

Mentre stavo sul pulpito, fissando quella telecamera, ho sentito questa tensione in tempo reale. Ho fatto quello che mi è stato chiesto. Parlavo regolarmente rivolto a quella telecamera, immaginando che quel piccolo dispositivo fosse l’equivalente delle persone sedute nelle varie sale sparse in città e nei sobborghi, persone che non potevo vedere, sentire o avvertire in alcun modo, realmente concreto e umano. Qualcosa in tutto ciò mi sembrava decisamente fuori luogo. Per settimane e forse mesi dopo quell’esperienza, anche se facevo la medesima cosa più e più volte, non riuscivo a scuotermi di dosso la sensazione che ci fosse un modo migliore per adempiere il nostro mandato.

Nel nostro mondo sempre più digitale, la chiesa ha fatto la cosa che ha sperimentato in precedenza un’infinità di volte: adattarsi e assimilarsi alla cultura contemporanea. Se oggi entri in qualsiasi chiesa degli Stati Uniti, grande o piccola che sia, probabilmente sarai circondato dall’eccellenza digitale e tecnologica (o almeno dal perseguimento di quest’obiettivo), con il preciso scopo di suscitare interesse. Questo desiderio di creare un’esperienza di “culto tecnologico”, accattivante per le masse digitalizzate e indolenti, ha portato a un pericoloso errore di calcolo. Si è giunti alla conclusione che, se una chiesa vuole crescere, prosperare, servire e raggiungere la sua comunità, deve essere all’avanguardia nelle tecnologie digitali.

Tornare all’analogico

E se ci fosse un percorso diverso? E se la chiesa dei “cento” e quella dei “diecimila” fossero entrambe sedute su montagne di un potenziale non sfruttato?

Credo che la risposta sia quella di ritornare alla Chiesa Analogica. Le persone hanno fame di esperienze umane e la chiesa è stata pensata da Dio per offrire esattamente questo: la comune e armonica unione dei credenti. In effetti, la chiesa è fondamentalmente progettata e concepita in vista di questo: creare opportunità e spazi per credenti di ogni estrazione sociale affinché sperimentino una reale espressione di sé, in un tempo e spazio reali. A differenza di qualsiasi altro aspetto della nostra cultura odierna, la chiesa può invitare le persone a radunarsi in carne e ossa e sperimentare la speranza che Gesù Cristo offre.

Ora potresti dire: “Jay, il digitale è semplicemente il mezzo, non il messaggio. Non sei un po’ pignolo?”. Questa è una risposta comprensibile, ma nega una realtà preoccupante di ciò che la rivoluzione digitale/tecnologica sta mettendo a nudo: i mezzi che utilizziamo sono innegabilmente intrecciati con i messaggi che condividiamo. Come il famoso filosofo del ventesimo secolo Marshall McLuhan disse: “Il mezzo è il messaggio”. Penso che abbia ragione.

Sin dai suoi primi giorni, la chiesa cristiana è stata contrassegnata dal suo invito alla spiritualità, non alla modernità. Questo non significa che la modernità non abbia importanza. Il nostro messaggio deve essere legato alla vita quotidiana e alle situazioni reali delle persone che siamo chiamate a servire. Ma i credenti in Cristo, in vista dell’obiettivo da raggiungere, hanno sempre utilizzato dei mezzi piuttosto improbabili: quello che alcuni hanno chiamato il regno di Dio capovolto, dove i primi sono gli ultimi e gli ultimi sono i primi, dove i ricchi sono poveri e i poveri sono ricchi, dove l’estraneo sperimenta l’appartenenza e tutti coloro che si riuniscono possono incontrare insieme qualcosa di totalmente diverso rispetto alla reiterazione di ciò che è già familiare. Ebbene nell’era digitale, una delle cose più sottosopra che la chiesa può offrire è l’invito a essere analogici, a uscire dalla tana dentro le nostre mura digitali, a colmare le nostre divisioni tecnologiche ed essere umani l’uno con l’altro nel senso più autentico: riunirsi per essere cambiati e trasformati in tempo reale, nello spazio reale, in modi reali.


Articolo tratto da “Chiesa Analogica”